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Luci della città

Sauro Costa, la X Mas e il fascismo che ritorna

di Giorgio Pagano

Varsavia, il Ghetto da cui 300.000 ebrei furono deportati nei lager nazisti    (2009)   (foto Giorgio Pagano)

Sauro Costa è nato nel 1923 nel quartiere del Canaletto, dove ancora vive. Raccontare la sua vita è il modo migliore per ricordare l’anniversario del grande rastrellamento di Migliarina del 21 novembre 1944, a cui seguì la deportazione di centinaia di spezzini nei campi di concentramento nazisti. Sauro è infatti un sopravvissuto del lager di Bolzano.
La sua fu un’infanzia felice, il padre era ferroviere, vice capostazione: “avevamo il latte di gallina”, dice lui usando un modo di dire del tempo. Da ragazzo faceva il garzone, portava il latte “dalla Marina (intende la zona di piazza Verdi) ai Colli, ai ‘signori’ di Spezia”. Nel 1940, quando l’Italia fascista entrò in guerra a fianco della Germania di Hitler, Sauro credette nella “guerra lampo”. Era un diciassettenne convintamente fascista. “Ma alla lunga le contraddizioni del fascismo vennero fuori”, spiega. Durante la guerra capì a poco a poco che “il fascismo era un regime sopraffattorio verso altri popoli e verso gli italiani”: cominciò a interessarsi di politica e divenne antifascista. Ecco la sua testimonianza, raccolta qualche giorno fa a casa sua:
“L’8 settembre ero militare in Campania, fummo lasciati allo sbando, fu terribile. Il giorno dopo stavamo facendo gli esercizi con i sottufficiali -perché gli ufficiali erano scappati- quando arrivò una camionetta tedesca che ci mitragliò, ferendo due di noi. Non ci restava che metterci in marcia per raggiungere le nostre case. Io camminai lungo la ferrovia e arrivai oltre Roma, poi da lì presi una tradotta che mi portò a Pisa. Con mezzi di fortuna arrivai a Spezia. Mio padre aveva buone relazioni con i fascisti, mi presero alla Todt, la fabbrica di costruzioni tedesca, dietro la Flage, a Montepertico. Facevo il magazziniere. Con gli amici del Canaletto maturammo l’idea di andare ai monti per fare i partigiani. Dovevo partire con Domenico Mosti e Gino Parenti. Mi chiamarono, ma mia madre mi fermò. Io dissi loro: ‘Voi andate, vi raggiungerò’. Poi ho saputo che salirono sul monte Barca con Ubaldo Cheirasco ed altri, e che furono tutti uccisi a Valmozzola dalla X Mas nel marzo del 1944. Se fossi andato con loro, sarei una delle vittime di Valmozzola. Nel frattempo la Repubblica Sociale mi chiamò per arruolarmi. Mi mandarono ad Alessandria, c’era Junio Valerio Borghese, il capo della X Mas, che ci fece il lavaggio del cervello, con un discorso intriso di violenza e di incitazione alla guerra. Quando l’ho sentito ho preso la strada e me ne sono andato. Scappai, e diventai un disertore. A casa non potevo stare, la mia famiglia sfollò a Valeriano. I miei parlarono con il partigiano Amelio Guerrieri di ‘Giustizia e Libertà’, che disse che sarei entrato nella sua formazione. Ma c’era stato un rastrellamento, i partigiani dovevano riorganizzarsi. Amelio ci spiegò che dovevo aspettare una quindicina di giorni. Ma io andai su dopo pochi giorni, avevo paura a restare a Valeriano. Salii a Calice, c’era il gruppo di Daniele Bucchioni, aspettarono che arrivasse Amelio da Beverone perché non si fidavano. Lui mi disse: ‘Hai fatto una cazzata, se non mi trovavi potevi andare a finire da Pachinelli (un altro modo di dire del tempo: era un’impresa che faceva i funerali)’. Con Amelio fabbricai bombe e partecipai ad alcuni attentati dietro Valeriano, nella strada costruita dai tedeschi, a Carnea e a Tivegna. Dormivamo in baracche e fienili. Presi una brutta bronchite, Sirio Guerrieri mi diede il permesso per andarmi a curare. Andai a Piano Battolla dalla famiglia Parenti, quella di Gino, morto a Valmozzola. A fine luglio fui uno dei tanti rastrellati a Piana Battolla. I tedeschi non sapevano che ero un partigiano, mi presero come civile. Avevo nascosto le armi e avevo con me ancora la tessera della Todt, ma non servì a nulla. Mi portarono in una cella dell’ex XXI Reggimento Fanteria, dove rimasi parecchi mesi. Eravamo in una cinquantina, tutti pigiati. Mi interrogarono e mi chiesero di entrare nella Repubblica Sociale, ma io dissi di no: ‘Fatemi quel che volete, ma con voi non ci vengo’. Mi riempirono di schiaffi, ma non fui mai torturato, a differenza di altri. Ricordo che arrivò Pietro Andreani, rastrellato a Vezzano a inizio dicembre, e che lo pestavano sempre. Un giorno due fascisti lo portarono in cella dopo un interrogatorio, tenendolo per le braccia. Uno di noi disse, in dialetto spezzino: ‘Stavolta non ti hanno fatto niente!’. In effetti sul viso non c’erano segni di violenza. Ma quando i due fascisti lo lasciarono libero, Andreani crollò a terra sbattendo il viso. La camicia, sul retro, era tutta sporca di sangue rappreso. Dall’ex XXI mi portarono a Genova, a Marassi, dove restai 10-15 giorni. Da lì a Bolzano, nel lager nazista, dove arrivai il 2 febbraio 1945. Mi misero nel Campo E, quello dei ‘pericolosi’. Lavoravamo in una galleria, per predisporre i piani per le macchine con cui costruire i cuscinetti a sfera. Senza mangiare o quasi. A volte ci facevano passare ore intere in piedi a metterci e a toglierci il cappello davanti a loro, per salutarli. Una volta per una giornata intera. Era una punizione enorme, voleva dire: ‘Non vali niente’. Era il livellamento del cervello umano: ‘Non devi pensare ma solo lavorare’. Ricordo che cercavo solo di sopravvivere. Sono stato fortunato: gli Alleati bombardarono la sede ferroviaria, i tedeschi non poterono più portarci in Germania. Restai due giorni in un vagone, in attesa di partire, ma il treno dovette tornare subito indietro. Arrivai a casa dopo il 25 aprile. Pesavo 44 Kg. Nel dopoguerra era difficile trovare lavoro. Dopo qualche anno, nel 1953, partii con mia moglie per la Svizzera, con una valigia di cartone. Feci il tornitore fino al 1988, poi tornai a Spezia. Mio figlio vive in Svizzera. Da allora partecipo alle iniziative dell’Aned (l’associazione degli ex deportati) e alle manifestazioni partigiane, e vado nelle scuole a parlare con i giovani. Perché il fascismo e il nazismo non tornino più”.
In questi giorni in cui il fascismo sembra essere tornato una “cosa normale”, da Ostia a Como, il racconto di Sauro è un monito. Spiega anche, a proposito di polemiche in corso nella nostra città, che cosa è stata la X Mas dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945: non più una gloriosa flottiglia della Marina ma un corpo militare operante in città e in montagna a fianco dei nazisti, per rastrellare, torturare, uccidere i partigiani e i civili. La memoria di Spezia non dimentica. È fieramente antinazista, ma è anche e ancor più antifascista: perché i crimini più orribili li commisero, nei nostri monti, i fascisti. Come a Valmozzola.
Il 14 aprile 1944 si tennero a San Terenzo i funerali di Angelo Trogu, uno dei martiri di Valmozzola. Il popolo santerenzino gremì la chiesa e il piazzale. Dietro il furgone che portava la cassa c’era un camion della X Mas. Puntarono le armi contro la popolazione. Ma questa non si disperse e gli amici di Angelo, impavidi delle minacce, portarono il feretro a spalla. Venne scattata una fotografia del corteo, per riconoscere coloro che vi avevano partecipato. La madre di Angelo fu denunciata dalla X Mas quale antifascista e sobillatrice comunista.
Dopo la Liberazione i parenti dei martiri sporsero la denuncia contro la X Mas. La prima, l’8 maggio 1945, fu quella dei fratelli di Nino Gerini. Alla Commissione di Epurazione di Lerici, Piera e Giglio dichiararono:
“Il 14 marzo dell’anno scorso nostro fratello venne catturato. Durante lo stesso giorno e nei giorni successivi, venne interrogato e obbligato a cantare ‘Giovinezza’, ma lui si rifiutò. Dopo aver subito atroci torture fu condannato a morte e fucilato da parte di elementi della X Mas. Poi, a corpo caldo, vennero fatte profanazioni: gli fu trapanato il cranio e gli fu asportata della materia cerebrale; gli vennero tagliati gli organi genitali che, fasciati in un suo fazzoletto, riposano in una tasca dei calzoni”.
Seguirono le denunce delle madri di tutti gli altri.
Il 17 febbraio 1949 la Corte di Assise ritenne Junio Valerio Borghese, Comandante della X Mas, colpevole di collaborazionismo con i tedeschi. Fu condannato a due ergastoli per aver fatto eseguire ai suoi uomini “continue e feroci azioni di rastrellamento” ai danni dei partigiani che, di solito, si concludevano con “la cattura, le sevizie particolarmente efferate, la deportazione e l’uccisione degli arrestati”, allo scopo di rendere tranquille le retrovie dell’esercito invasore, e per la fucilazione di otto partigiani a Valmozzola.
La nostra malandata Repubblica è nata dal grido di ribellione alla dittatura fascista di giovani come Angelo Trogu, come Nino Gerini, come Sauro Costa. Il fascismo che rinasce mette in crisi l’atto fondativo stesso della nostra nazione. Occorre reagire: la destra deve distinguersi dal neofascismo; la cultura liberale deve uscire dal silenzio; la sinistra deve tornare a saper offrire un’idea alternativa al pensiero dominante. Le leggi dello Stato che impediscono la riorganizzazione del fascismo vanno applicate. La scuola e la cultura, soprattutto, devono fare la loro parte. Per rispondere al terribile fascismo fiorentino degli anni Venti, Nello Rosselli progettava di fondare biblioteche per ragazzi in ogni quartiere della città, e mentre era chiuso in carcere Antonio Gramsci rifletteva sull’urgenza di “servizi pubblici intellettuali”. Serve un progetto culturale che costruisca l’antifascismo attraverso la cultura, cioè la capacità di mettere tutti in grado di interpretare le contraddizioni della storia. Serve la forza culturale e morale per meditare “che questo è stato” (Primo Levi) e che non deve più tornare.