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Primo grado

Squalifiche fino a sei anni per i vogatori cadamoti

Ecco la sentenza del Tribunale antidoping per i tre atleti risultati positivi al clenbuterolo dopo lo scorso Palio del Golfo. L'avvocato Lombardi: "Parzialmente soddisfatti, pronti a inoltrare appello".

La sede del Coni al Foto Italico

Sei anni a Riccardo Giacomazzi, sei anni a Giuseppe Liberatore e tre anni a Daniele Zampieri. Sono le squalifiche comminate dalla prima sezione del Tribunale Nazionale Antidoping di Roma ai tre vogatori del Cadimare risultati positivi a un controllo antidoping effettuato la scorsa estate. La sentenza di primo grado è stata emessa ieri nei confronti dei tre tesserati UISP-Canottaggio. Gli esami sulle urine prelevate ad agosto 2018 subito dopo la disputa del Palio del Golfo avevano riscontrato per gli atleti una positività al clenbuterolo, sostanza divenuta “famosa” per aver portato alla squalifica di due anni dal ciclismo professionistico per Alberto Contador.
Sono dunque state parzialmente ridimensionate le richieste della Procura nazionale antidoping, che aveva inizialmente chiesto dieci anni di stop per Giacomazzi, sette per Liberatore e sei per Zampieri. Nelle prossime ore i difensori dei tre vogatori riceveranno le motivazioni della sentenza. “Siamo parzialmente soddisfatti ma posso già annunciare che proporremo appello – dice l’avvocato Massimo Lombardi che insieme al dottor Filippo Vergassola difende Giacomazzi e Zampieri -. Nonostante sia già stata ammorbidita, riteniamo che la pena sia troppo alta sia contando quale percorso collaborativo abbiamo instaurato in questo anno che rispetto alla fattispecie. La condotta confessoria e i fatti per come sono avvenuti si prestano a un alleggerimento”.
I difensori di Giacomazzi e Zampieri si soffermano poi sul processo parallelo, quello di piazza, fatto nei confronti dei due accusati. “Due persone che alla voga hanno donato anni della propria esistenza, ma che non possiamo permettere in alcun modo vengano rappresentate diversamente da ciò che sono: lavoratori e padri di famiglia, persone che non vivono di sponsor né professionisti strapagati, ma persone ‘normali’ che, nel vivere una passione in maniera intensa, hanno commesso uno sbaglio – scrivono in una nota – Di imprudenza, di negligenza, di irruenza. Mai mossi da slealtà, mai animati da volontà di alterare un esito sportivo”.

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