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Il personaggio

Dal porto di Vernazza ai cerchi di Olimpia. Lino Borello e un’incredibile storia di passione, sacrifici, vittorie nell’acqua

Viene dal mare, risale dal molo di Vernazza, sorridente, fresco della sua piccola nuotata giornaliera. Gli si chiede: Fino a dove sei arrivato Lino? “Quasi fino a Monterosso”. Ottantadue anni vissuti nel segno dell’acqua. “È partito tutto da qui, tra uno scoglio e l’altro, dove imparavamo a nuotare”.

 

Lino Borello

 

Un viaggio che lo ha portato dal mare delle Cinque Terre alle vasche di tutto il mondo, in un percorso, prima come nuotatore e poi come tecnico, tinto di azzurro mare e di azzurro nazionale. “Tutti i più grandi sono passati da me”, dice senza esagerare, con gli occhi cerulei accesi dai ricordi: “Ho portato Federica Pellegrini a Tunisi ai Giochi del Mediterraneo per la Coppa Comen; ho accompagnato Matteo Giunta in Israele l’anno prima e Gregorio Paltrinieri a Shangai per i Campionati del mondo. L’avevo anche ripreso, Gregorio, fuori vasca, a Siracusa, a una Coppa Comen, perché era rimasto seduto mentre suonava l’inno. Che non era quello italiano, ma è buona regola alzarsi e onorare la nazione vincitrice”.

Lino Borello è un serbatoio senza confine di aneddoti: spazia su più nazioni; recupera dall’archivio della memoria nomi semplici, cognomi altisonanti, soprannomi di paese; tace vizi, riveste di modestia i primati e lascia che gli occhi si annacquino al ricordo di allenatori, compagni e allievi che si sono persi per strada. Sempre senza perdere di vista i bambini vernazzesi intenti a seguire la lezione di nuoto oltre gli ombrelloni.

Lo ferma per strada un turista americano: ha notato sull’avambraccio sinistro un tatuaggio con i cinque cerchi olimpici intrecciati. Un classico della tradizione sportiva d’élite: rendere indelebile il ricordo di quello che Lino Borello definisce “il  più grande traguardo a cui aspiri chiunque pratichi sport”. E prosegue: “Come tecnico nazionale ho fatto sette campionati del mondo, diciotto campionati europei, le Universiadi in Giappone, i Giochi del Mediterraneo a Casablanca, le Olimpiadi a Los Angeles. Entrare nello stadio per la cerimonia olimpica, sfilare in divisa, è l’emozione più grande. La portabandiera era Sara Simeoni, la divisa era di Valentino: pantaloni bianchi, giacca blu e cravatta tricolore. I miei familiari mi avevano guardato in televisione, restando svegli per le 4, 5 del mattino. Paradossalmente, l’immagine più forte di quell’edizione dei Giochi americani è quella dei cecchini sui tetti. Ci ho ripensato con le cronache di questi giorni. Dopo Monaco ‘72 la sicurezza era stata alzata ai massimi livelli: dovevamo sempre portare i pass attaccati al collo, giorno e notte”.

La spiaggetta di Vernazza

 

Come si arriva dal porto di Vernazza ai cerchi di Olimpia?

“A me nuotare è sempre piaciuto. Era frequente che in paese organizzassero sagre con gare remiere o natatorie, sia per adulti che per bambini. Tutti partecipavamo. Mio padre voleva che studiassi: a Vernazza era complicato e così sono andato in collegio a Genova e ogni tanto frequentavo la piscina di Albaro. Nel 1960 a Palermo ho vinto il titolo mondiale di nuoto pinnato. Poi sono stato chiamato al servizio di leva, che ai tempi durava due anni: i superiori mi hanno visto nuotare e tesserato con la Marina Militare. Tra tutti gli stili, il mio preferito era il delfino”.

Nel frattempo, all’Acquacetosa cominciarono i lavori per instaurare la Scuola dello Sport.

“Sono stati anni importanti e formativi. In Italia non nuotava quasi nessuno. Avevano chiamato un allenatore americano che ci faceva allenare sia al mattino che al pomeriggio: siamo stati i primi a farlo. Studiavo e nuotavo per l’A.S. Roma”.

La prima convocazione in azzurro?

“Nel 1964 per Italia/Olanda. Siamo andati a Dieren, nei Paesi Bassi. Ah, quanto la aspettavo. La prima di quindici convocazioni tra il 1964 e il 1968. A Roma avevo a disposizione un appartamento che dividevo con l’allenatore Paolo Costoli e andavo spesso a casa di Luciana Massenzi assieme a Sergio De Gregori, tutti atleti della A.S. Roma. Tutti periti a Brema nel tragico schianto aereo del 28 gennaio 1966. Miravo anche io ad andare al meeting tedesco, ma al conviviale sul Gran Sasso la piscina de L’Aquila rimase tutto il tempo chiusa per lavori e non potei qualificarmi”.

Benedetta sfortuna.

“Telefonò il segretario federale alle dieci e mezzo di sera. Disse: sull’aereo di cui hanno parlato al telegiornale c’erano tutti i nostri ragazzi. I nostri amici, coetanei, vent’anni”.

“Non erano né ricchi né famosi” scriverà subito dopo la tragedia Dino Buzzati, bacchettando dalle pagine del Corriere la partecipazione di un’Italia concentrata sul Festival della canzone: “A guardare le loro foto fanno tenerezza e pietà. E poi l’Italia era a seguire Sanremo, una gara di nuoto in un paese che non sa stare a galla, non era così interessante”.

 

Il nuoto italiano invece sarebbe diventato interessante, anche grazie a Lino Borello.

“Finita la Scuola dello Sport sono diventato dipendente Coni. Come prima missione mi hanno mandato a Firenze, poi ho chiesto l’avvicinamento a Genova: era la città più vicina a Vernazza. Avevo 32 anni. Quando aprì la piscina di Genova Rivarolo mi misero come direttore del Centro Coni. Dopo poco mi ritrovai a dirigere anche la piscina di Albaro: facevo la spola tra due centri contemporaneamente con grande passione”. Allenatore amichevole ma rigoroso: “non ho mai tollerato ritardi. Li mandi via la prima volta, non lo fanno mai la seconda”.

E in seguito è arrivato il sodalizio con Sturla. 

“Il Coni decise di dare i centri in gestione alle società: io sarei dovuto andare in un ufficio. L’idea non mi piaceva: lo feci presente. Arrivò l’offerta della Società Sportiva di Sturla. Se rinascessi altre cento volte farei le stesse scelte. A scapito della mia pensione, che sarebbe migliore se avessi accettato il lavoro d’ufficio”, scherza Borello.

Sotto la sua guida, la Società Sportiva Sturla in dodici anni ha raggiunto livelli mai replicati. 

“Ho portato atleti ai Mondiali, agli Europei, e ben due alle Olimpiadi, Enrico Bisso a Montreal ‘76 e Maurizio Divano a Los Angeles ‘84. Hanno rischiato di essere di più: nel 1980 c’è stato il boicottaggio e quindi Fabbri e Cerabino, che erano carabinieri, non avevano potuto partecipare”.

Come si motiva un atleta obbligato a non gareggiare?

“Bisogna sempre dare altri traguardi, pensare di puntare all’edizione successiva. Nonostante quattro anni per un atleta siano tanti. Ma non ci sono solo le partecipazioni che contano: posso dire di aver centrato record e primati italiani dal livello giovanile all’Assoluto”.

Oltre all’orgoglio più grande: aver inventato i Master: “Nel 1973 stavano ancora costruendo la piscina di Sturla, – racconta Borello -. Lì ho ripreso gli insegnamenti del tecnico americano a Roma, il quale fu uno dei primi a portare a nuotare i bambini dell’asilo, e sono stato uno dei primi a far nuotare i ragazzi al mattino, prima di andare a scuola”.

Dai più piccoli ai più grandi, tutto in una vasca.

Nel 1975 ho chiesto alla Società che si facesse qualcosa per gli anziani, oltre che per i bambini. Esistevano in quel tempo gare amatoriali di atletica e di ciclismo, ma non di nuoto. Ho chiamato un po’ di amici che erano in Nazionale: li attiravo offrendo loro un biglietto per la Fiera del Mare di Genova, ma venivano per anche per il semplice piacere di rivedersi. Dopo anni in cui magari avevamo addirittura vissuto assieme, condiviso camere, sogni e timori, non c’era più occasione per incontrarsi. Gli amici hanno risposto: tutto passava dai giornali, niente whatsapp. La Gazzetta del lunedì il 20 ottobre 1975 titolava Il primo meeting delle vecchie glorie nella piscina di Sturla. L’articolo prosegue: Alla manifestazione hanno gareggiato atleti come Eraldo Pizzo, Pamreggiani, D’Altrui, che sono stati olimpionici, oltre ad un gruppo numeroso di azzurri, come Dalla Savia, Fossati, Rastrelli, Borello, il campione del mondo militare Resasco, Ermirio, Vassallo…”.

Erano nati i Master.

“Master è un nome che è uscito dopo. Prima era Meeting delle vecchie glorie, come da trafiletto. Il nome Master è nato qui a Vernazza, quattro o cinque anni dopo quell’edizione zero: ero sul molo quando vidi entrare una barchetta a vela pilotata da un solitario navigatore anziano e sullo scafo c’era la scritta Master. La scena mi ricordò Santiago, il protagonista del romanzo di Hemingway, Il Vecchio e Il Mare. Non avevo altri riferimenti sportivi, né paragoni con tennis o altri sport. Qualcuno disse che avevo portato il nome dall’America perché la Federazione mi mandò nell’Indiana a studiare; ma quello fu un mio periodo successivo. In quel momento avevo solo l’immagine di quel vecchio sulla barca, con cui avevo anche parlato: veniva da Viareggio, si era fermato al molo ed era ripartito il giorno dopo. Avevo la forza del romanzo in testa e la voglia di dimostrare che il nuoto è per tutti, senza età, perché l’acqua tonifica, massaggia il fisico, trasmette vitalità”.

Celebre l’incipit de Il Vecchio e Il Mare: “Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela, nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce”. Santiago sfortunato, di mala sorte, che invece in mare da solo ingaggia un’epica lotta con il pesce. Tornerà in paese da quella pesca a mani vuote, ma guadagnandosi il rispetto della collettività.

A mani vuote invece Borello non è mai rimasto.

 “Ho sempre centrato tutto quello che volevo come tecnico. O per abilità o per fortuna. O entrambe. Nel 1984 sono stato nominato miglior allenatore italiano dall’Associazione Nazionale Allenatori di Nuoto. Io non credo a scaramanzie, cabale o similaria. Credo nell’allenamento, nella motivazione. Bisogna migliorare le qualità che fanno arrivare al traguardo”.

Come si fa? Puoi fare un esempio?

“Ad esempio quando sono arrivato a Sturla ho visto subito che Enrico Bisso era un dorsista ma nuotava male. L’ho corretto: è stato il primo dorsista italiano a scendere sotto al minuto. Maurizio Divano invece era alto 1,62 o 1,63 ma aveva una grinta pazzesca: curavo la sua grinta per sopperire alla mancanza del fisico”.

Tante le sfide raccolte, sempre con un occhio al porticciolo di casa.

 “Nel 2004 quando hanno stabilito che il nuoto di fondo sarebbe diventata disciplina olimpica, la Federazione mi incaricò di seguire anche quel settore. Sapevano che provenivo da Vernazza. Ho accettato”.

E allora ecco che i campioni si vengono ad allenare alle Cinque Terre.

 “Nel 2008 la Federazione mi chiese di fare due collegiali a Roma in preparazione agli Europei che si sarebbero tenuti a Dubrovnik. Io ero con la Rari Nantes a Spezia. A Roma non volli andare così feci venire gli atleti qui. Era agosto, andavamo a Lerici e due volte a settimana li portai a nuotare da Vernazza a Monterosso. Tornammo dalla Croazia con sei medaglie, tra cui l’argento nei 10 km di Martina Grimaldi, la sua prima medaglia internazionale”.

Com’è cambiato oggi il nuoto?

“È diventato più… specifico. Prima si lavorava molto sul generale, si sperimentavano gli stili; ora li specializzano subito: velocisti, dorsisti, mezzofondisti,… I risultati ci sono, quindi va bene così. I cambiamenti vanno assecondati. Quando cominciai a nuotare a Roma arrivammo a fare tre allenamenti in un giorno, due o tre volte alla settimana, in fase di preparazione. Sembrava una cosa inaudita. Non è stancante se lo fai con amore, con passione. E io nuotavo a delfino, che non è uno stile facile”.

Cosa è penalizzante in una squadra?

“Gli amori. Si cercavano, si cercano sempre, anche negli alberghi. Qualcuno l’ho portato a dormire in camera doppia con me. Non si vince senza sacrifici e se vuoi il risultato…”.

Qual è stata la tua più grande fortuna?

“Che la Federazione mandasse gli allenatori a studiare il nuoto americano. Nell’Indiana University conobbi Doc Counsilman, leggendario allenatore, tra gli altri di Mark Spitz, il quale non mancava di andarlo a salutare. Era il novembre del 1979 ed erano passati sette anni dalle sue sette medaglie d’oro delle Olimpiadi del 1972. L’aprile successivo invece fui inviato nella Germania dell’Est. Mi accolse una coppia, mi portarono in giro nei centri federali: a Berlino, a Lipsia,… Ma in tutto il tempo del mio soggiorno la nazionale di nuoto restò in montagna. Ho visto bambini, strutture, impianti,… ma non la nazionale”.

Su chi dobbiamo tenere gli occhi alle Olimpiadi di Parigi 2024?

“Vi sono molti atleti che potrebbero arrivare a medaglia. Tra l’altro mancano anche i russi…”.

La divisa di Valentino di Los Angeles ’84 ce l’hai ancora?

“Tarmata, purtroppo”.

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