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Il partigiano dante castellucci

Ottant’anni fa la tragica fine di “Facio”, l’intervento di Giorgio Pagano

Commemorazione 80 anni di morte Facio
La commemorazione a Zeri

Pubblichiamo l’intervento con cui Giorgio Pagano, co-presidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia, oggi a Zeri ha ricordato Dante Castellucci “Facio” a ottant’anni dalla tragica morte

Dante Castellucci nacque il 6 agosto 1920 a Sant’Agata d’Esaro, in provincia di Cosenza. A due anni si trasferì in Francia con i genitori. Qui visse fino al 1939, quando la famiglia rientrò in Calabria. La Francia abituò il giovane Dante alla democrazia. Non viveva nell’agiatezza, anzi. In Francia studiò ma anche lavorò. Mostrava una speciale predisposizione per l’arte: suonava il violino, scriveva poesie, disegnava. Appena rientrato in Italia partì per il servizio militare. Nel 1942 Dante finirà tra i soldati italiani in partenza per la Russia. Qui conobbe l’inferno: il nostro esercito drammaticamente impreparato, i “camerati tedeschi” crudeli aguzzini con i russi ma anche indifferenti alla salvezza degli italiani. Dante conobbe pure lo spiccato senso di umanità del popolo russo. Fu una tappa decisiva della sua maturazione.
Durante una convalescenza al suo paese, sul finire del 1940, Dante aveva già conosciuto Otello Sarzi, diciottenne antifascista, componente di una famiglia di attori e burattinai. Sul finire del 1942, rimasto ferito durante la “seconda battaglia difensiva del Don” e ricoverato in vari ospedali per mesi, Dante raggiunse Otello e la sua famiglia a Campogalliano, vicino a Modena. Entrò a far parte della compagnia teatrale che, con un tendone, girava per i paesi dell’Emilia. Faceva l’attore, dipingeva le scene, suonava il violino e la chitarra, e svolgeva attività antifascista con Otello e la sorella Lucia, organicamente legata al Partito comunista.
L’incontro, decisivo, con i Sarzi, ne preparò un secondo, altrettanto se non più decisivo: con Aldo Cervi “Gino”, la sua famiglia e i suoi compagni, nella cascina ai Campi Rossi a Gattatico, nel Reggiano. L’attività antifascista si fece sempre più intensa. Ai Campi Rossi la Resistenza era iniziata, prima ancora dell’8 settembre 1943. Dante si trasferì in casa Cervi, fu partecipe e protagonista di un’esperienza che contiene tutto ciò che di meglio il popolo italiano espresse in quegli anni. Italo Calvino lo sinterizzò così: “lotta contro la guerra, patriottismo concreto, nuovo slancio di cultura, fratellanza internazionale, inventiva nell’azione, coraggio, amore della famiglia e della terra”.
Quando cadde il fascismo i Cervi – con loro c’era Dante – offrirono a Campegine quella che passerà alla storia come la “pastasciutta antifascista”: quella del 27 luglio fu una festa conviviale, all’interno della quale, senza distinzioni e gerarchie, una comunità ritrovava il senso della propria identità. Quasi la prefigurazione utopica di un mondo nuovo. Ma la pace e la libertà non erano ancora arrivate. Dopo l’8 settembre la cascina ai Campi Rossi divenne deposito di armi, ma soprattutto rifugio ospitale per soldati sbandati e prigionieri di guerra riusciti a fuggire. La prefigurazione utopica della società futura si concretizzò nella realizzazione di una sorta di “avamposto di fratellanza internazionale nel cuore della guerra più crudele”, come lo definì Calvino. Tanti furono i fuggiaschi che si fermarono alla cascina nei mesi dal settembre al novembre 1943: italiani, inglesi, sovietici, sudafricani, americani… Furono accolti e curati, e aiutati ad avvicinarsi al fronte.
In ottobre un gruppo – “Gino”, Dante, Otello, alcuni stranieri ed altri del Reggiano – salì sull’Appennino. Ma era troppo presto per il partigianato ai monti. La “prima banda”, anche in seguito a una dura polemica con alcuni dirigenti del Partito comunista, rientrò in pianura e si dedicò ad azioni di sabotaggio, ad attentati, al reperimento di armi.
Dante venne catturato dai fascisti insieme ai fratelli Cervi il 25 novembre 1943. Si finse un soldato francese e venne rinchiuso, insieme agli altri stranieri, in un carcere diverso da quello dei fratelli. Per questo scampò alla loro tragica morte. Dante riuscì a fuggire poco prima che fucilassero i Cervi, tentò di liberarli dal carcere ma non ce la fece. Fu il cruccio della sua vita.
Nel gennaio 1944 raggiunse, sui monti del parmense, il Battaglione Picelli, comandato da Fermo Ognibene “Alberto”. Scelse, come nome di battaglia, “Facio”. La banda si trasferì nel Pontremolese a metà febbraio: da allora fu sempre legata alla Resistenza lunigianese, pur dipendendo dalla XII Brigata Garibaldi di Parma.
Il Picelli si radicò sempre più, grazie innanzitutto alle azioni: il disarmo del posto di avvistamento del Bratello, il 5 marzo, l’attacco al casello ferroviario di Guinadi, il 10 marzo, quello alla stazione ferroviaria di Guinadi, il 12 marzo… La banda si divise in due gruppi, che dovevano ricongiungersi al Lago Santo. Ognibene, al comando di un gruppo, fu ucciso a Succisa il 15 marzo. “Facio” e i compagni dell’altro gruppo non lo sapevano. Al Lago Santo, il 18-19 marzo, furono protagonisti di una battaglia diventata leggendaria contro un numero soverchiante di tedeschi. Il Picelli, stremato, si riprese, con “Facio comandante. Ancora nel pontremolese, a Cervara. Il radicamento della banda fu dovuto anche al suo approccio verso i contadini: la lotta contro gli ammassi di generi alimentari e di bestiame, e in generale un’attenzione costante a un rapporto di fiducia e di collaborazione. Qualche giorno fa sono andato a trovare Virginia Iardoni Zuccarelli, moglie di Pietro, uno degli eroi del Lago Santo: tra la gente di Cervara il ricordo di questo rapporto si è tramandato. “Facio”, per esempio, veniva invitato ai matrimoni, e avvisato in tempo nel caso di arrivo di qualche fascista o tedesco.
Il Picelli non era solo una banda, era una comunità di uomini. Poveri e male equipaggiati, ma uniti da una disciplina non militare, bensì morale: uguaglianza di condizioni, tutto si divideva, il cibo, le sigarette, gli abiti. Come ha sintetizzato Nello Quartieri “Italiano”: “Noi viviamo dentro una comunità che ci appartiene e alla quale apparteniamo”. Un microcosmo di democrazia dal basso e di civiltà fraterna. Un comunismo umanitario, esistenziale, istintivo. Non ideologico e solo approssimativamente politico.
Certamente il Picelli era anche una banda militare: mobilissima, sapeva fare molto bene la guerriglia. “Facio” fu uno straordinario autodidatta della guerriglia: un altro segno della sua vivida intelligenza.
Ma con l’estate si avvicinava un processo forse inevitabile, che si sarebbe rivelato lento e difficile, con esiti a volte positivi, a volte disastrosi: il coordinamento delle bande, la loro unificazione in divisioni e comandi. Un processo che fu condotto dagli uomini dei partiti politici, spesso con la collaborazione degli ex militari presenti nelle bande.
Secondo il Comando generale delle Brigate Garibaldi, nel giugno 1944, la “disciplina militare” non avrebbe impedito la “fraternità” tra i partigiani e i comandanti e i momenti di vita comunitaria. Era una speranza forse eccessiva: solo i partiti potevano unire i partigiani in un progetto comune e riorganizzarli, ma non sempre i loro dirigenti ne avevano le capacità.
Lo dimostra la vicenda di “Facio” e dell’unificazione delle bande garibaldine sui nostri monti: il PCI spezzino non aveva i “quadri” esperti per questa missione. Fu già chiaro fin dai primi tentativi a inizio giugno. Si pensi al fatto che il principale punto di riferimento del PCI spezzino ai monti era Antonio Cabrelli “Salvatore”, pontremolese dal passato molto discusso. “Un tipo sospetto”, secondo Giorgio Amendola. Certamente cinico, ambizioso, privo di scrupoli. E però il PCI parmense lo condusse al Picelli, dove si conquistò – in virtù dell’età, della fama di veterano, di una certa capacità di ingannare con la parola – la fiducia iniziale di “Facio” e degli altri. Brigava, trattava, procurava armi. Diventato nella prima metà di giugno commissario politico di un distaccamento del Picelli, l’Ognibene, immediatamente lo ribattezzò con il nome di Antonio Gramsci e lo rese autonomo, spostandolo a Zeri e aggregandolo di fatto alle forze garibaldine spezzine. La coesione morale del Picelli non c’era più. Il commissario politico, Enrico Gatti, era quasi sempre nel parmense. “Facio” era sempre più solo. Per i dirigenti comunisti spezzini ai monti, senza nemmeno discuterne con quelli di Parma, il Picelli doveva passare sotto Spezia: altrimenti gli azionisti avrebbero avuto la brigata più forte.

: altrimenti gli azionisti avrebbero avuto la brigata più forte. Cabrelli e i suoi offrirono anche denaro e promozioni, perché i partigiani tradissero “Facio”. Quest’ultimo lavorò per appianare il contrasto, ma inutilmente. Probabilmente, alla fine, desiderava soltanto tornare a Parma con un po’ di uomini – compresi quelli disponibili del distaccamento Gramsci: questa era per lui una questione di principio – e di armi. Lo stesso comando di Parma glielo aveva ordinato. Ma la situazione era ormai compromessa: Facio fu sfiorato da un colpo di fucile, si parlava apertamente di un progetto per ucciderlo. La questione dei lanci fu un pretesto per le accuse e il processo: fatti del genere erano allora la norma, non l’eccezione. Chi si appropriava di lanci in realtà diretti ad altri non per questo diventava un agente nemico. L’autenticità di molte lettere di quei giorni attribuite a Facio è tutta da verificare. Così come quella dei verbali del processo. Tutti i documenti furono scritti – o riscritti – dopo, molto dopo.
“Facio” fu fucilato ad Adelano all’alba del 22 luglio 1944. Non aveva ancora 24 anni. La sua compagna, Laura Seghettini, che passò con lui la notte prima della morte, disse che i partigiani di Primo Battistini “Tullio” erano disposti a farlo fuggire, ma che lui si rifiutò di farlo. “Tullio” diede la stessa versione. Le lettere pubblicate come scritte da “Facio” quella notte, secondo Laura non furono mai scritte.
Il PCI spezzino inviò nello zerasco l’ispettore Paolino Ranieri “Andrea”, che criticò aspramente Cabrelli e compagni. Così fece in una lettera il segretario della Federazione Antonio Borgatti “Silvio”: “Avete agito contro di lui con la stessa indifferenza che si usa contro una spia o un fascista”. Ma Cabrelli, che il 28 luglio, grazie a quell’operazione di unificazione, era diventato il commissario politico della neonata I Divisione Liguria, fu sostituito in questo ruolo solo nel gennaio 1945. Gli altri membri del Tribunale di guerra che aveva condannato “Facio” continuarono invece a ricoprire incarichi di grande responsabilità nel mondo partigiano spezzino.
Non tutto può essere attribuito alla malvagità di Cabrelli. La questione è quella dei metodi moralmente sbagliati e politicamente controproducenti usati dai dirigenti comunisti spezzini ai monti per ottenere l’obiettivo dell’unificazione delle bande. Lo si raggiunse con un crimine.
Nella motivazione della Medaglia d’argento a Dante Castellucci si legge: “Valoroso organizzatore della lotta partigiana, incurante di ogni pericolo, partecipava da prode a numerose e cruente azioni. Scoperto dal nemico si difendeva strenuamente; sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto. Esempio fulgido del più puro eroismo”.
Era il 1963. Ancora un atto di cinismo. E’ giunto il momento di rendere giustizia a “Facio”: revocare la falsa medaglia e conferire una nuova onorificenza. Fare giustizia fino in fondo: lo dobbiamo a “Facio” e alla Resistenza.
In un momento in cui la Resistenza è sotto attacco non dobbiamo temere di criticarne i lati oscuri, per fare emergere la straordinaria luce della lotta in cui la Nazione italiana tornò a nuova vita e conquistò la democrazia.
É vero che se “Facio” fosse sopravvissuto la Resistenza sarebbe stata migliore: umanistica, fraterna, libertaria.
Ma è vero – anche e comunque – che grazie alla Resistenza abbiamo conquistato la democrazia, la Repubblica, la Costituzione: le nostre risorse nell’Italia e nel mondo difficile di oggi.
La democrazia che non ha memoria del proprio passato – di tutto il suo passato, senza rimuoverne le parti più sgradevoli – non può avere forza.
E’ per questo che non possiamo concludere che così:
Grazie Dante! Grazie comandante Facio! Ora e sempre Resistenza!
Giorgio Pagano, co-presidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia

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