Il Museo Tecnico Navale ricorda la vicenda del dirigibile Italia a 96 anni dal giorno in cui l’equipaggio sopravvissuto fu salvato dopo 49 giorni sul pack artico con temperature fino a -40 gradi. Una storia che accomuna Milano, che finanziò la spedizione, e La Spezia, dove fu approntata la nave di supporto che accompagnò l’Italia fino al suo tragico epilogo.
“Il Polo Nord era l’ultimo pezzettino di mondo ancora da conquistare e l’Italia cercava terra per trovare materie prime di cui era sprovvista”, ha spiegato Marco Iezzi, responsabile dell’area trasporti del Museo nazionale di scienza e tecnologia del capoluogo lombardo ammettendo di aver dovuto rivedere la propria esposizione di un “racconto che è sempre stato Romacentrico e Milanocentrico”. Oggi il suo pubblico sono state cinque classi del Capellini-Sauro a cui ha raccontato come il dirigibile Italia fosse “un manufatto enorme, lungo quanto il campo dello stadio Picco: 105 metri – dice lo studioso -. All’interno della cabina, grande quanto un autobus, vi erano meno di venti persone”. Poco più della metà sopravviverà a quell’avventura.
Pirelli, Falck, Carburanti Lampo ma anche Mondadori e Corriere della Sera, che si garantiscono i diritti di pubblicare eventuali scritti dei partecipanti, sono le grandi aziende meneghine che finanziano la missione, che ha anche un sapore scientifico. A bordo dell’aeromobile c’è infatti Aldo Pontremoli, fisico che voleva raggiungere il Polo Nord per effettuare misurazioni su magnetismo e radiazione terrestre sfruttando l’accomodamento di quella che è rimasta alla storia come la tenda rossa per stazionare sul ghiaccio artico. “Aldo Pontremoli non tornerà mai e quindi non abbiamo idea di cosa potrebbe aver raccolto – ricorda Iezzi -. Era dentro il pallone quando l’Italia si schiantò sul pack, venendo poi trascinato nella troposfera dalla tempesta”.
Al museo spezzino c’è la radio di emergenza che ha mandato l’sos, captato da un radioamatore russo e rilanciato fino ad arrivare al campo base presso la Baia del Re nelle isole Svalbard. La speranza di venire soccorsi fu fondamentale per motivare quel manipolo di esploratori a resistere 49 lunghissimi giorni fino al salvataggio da parte della rompighiaccio russa Krassin. Su quella nave tornarono anche i due oggetti che hanno reso possibile la sopravvivenza dell’equipaggio restante, ovvero la tenda e appunto l’Ondina 33.
All’interno dell’arsenale spezzino fu inoltre approntata nave Città di Milano che avrebbe supportato la missione. “Era una nave posamine di costruzione tedesca ottenuta dall’Italia come riparazione bellica alla fine della Grande Guerra – spiega l’ammiraglio Leonardo Merlini, direttore del Museo Tecnico Navale -. Nel regio arsenale le fu rinforzata tutta l’opera viva, in particolare a prora, per poter penetrare nel pack. Venne chiusa la plancia e potenziato l’impianto di riscaldamento per affrontare le rigide temperature artiche. Le eliche di bronzo furono sostituite con una coppia in acciaio per evitare danni dall’urto con il ghiaccio. Gli apparati radio permettevano di comunicare con il dirigibile e con la stazione San Paolo di Roma a quattromila chilometri di distanza”. Le stive, originariamente progettate per contenere cavi, furono ripensate per contenere circa 400 bombole dell’idrogeno che permetteva all’aeromobile di librarsi in cielo.