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Fiaccolata della Liberazione, Pagano: “La lezione dei partigiani: la pace e il futuro sono i veri valori”

Giorgio Pagano alla Fiaccolata del 25 aprile

Come da tradizione, ieri sera nelle strade di Migliarina si è svolta la fiaccolata per la Festa della Liberazione. Partito alle 21 da Largo Marcantone, il corteo accompagnato dalla banda musicale “G. Puccini” ha raggiunto Piazza Concordia, dove è stata deposta una corona al monumento al Migliarinese. Raggiunto il Parco XXV Aprile per la deposizione della corona al monumento “Fischia il Vento” è stato suonato l’inno nazionale ed è stato reso omaggio alle lapidi presenti.
A quel punto le autorità hanno pronunciato i loro interventi: sono saliti sul palco il sindaco Pierluigi Peracchini, il co-presidente del Comitato unitario della Resistenza Giorgio Pagano e il segretario generale della Cisl Antonio Carro, per i sindacati confederali.

Riportiamo di seguito il discorso integrale di Pagano.

“Autorità, cittadini, compagni e amici delle associazioni partigiane,

grazie per essere qui ancora una volta.

Ricordiamo i compagni e amici partigiani che ci hanno lasciato nell’ultimo anno. Sono tanti, purtroppo. Rendiamo loro un omaggio affettuoso e riconoscente.

Salutiamo gli “ultimi” che sono rimasti. Vogliono tutti testimoniare e lottare ancora.

Qualche anno fa, mentre raccoglievo le testimonianze per un libro sulla Resistenza delle donne, mi sono imbattuto nella storia della brigata partigiana femminile “Alice Noli”, di Sampiedarena. Tra le partigiane della brigata c’era, secondo i documenti dell’epoca, Guglielma Bertini: però nessuno ne aveva saputo più nulla. Non aveva chiesto il riconoscimento di partigiana, come tante altre donne, e si era addirittura eclissata. Domani Guglielma – che ha 103 anni, è molto lucida e vive in carrozzella  – sarà per la prima volta a una manifestazione per il 25 aprile a Genova, la sua città. Il perché lo ha spiegato così: “Ho mantenuto il silenzio per tutta la vita, ora ho deciso di testimoniare l’orrore della guerra”. Grazie di cuore a Guglielma e a tutti gli “ultimi”.

Per l’Anno Tematico 2024 il Comitato Unitario della Resistenza ha scelto, nel contesto delle iniziative triennali per l’Ottantesimo, il tema “1944. Gli scioperi nelle fabbriche, la primavera e l’estate partigiane, le stragi e i rastrellamenti”.

Le iniziative per l’Ottantesimo sono cominciate l’8 settembre dello scorso anno: abbiamo ricordato il sacrificio degli uomini della corazzata Roma e il peculiare patriottismo della Marina, così come il sacrificio e il patriottismo, meno noti, degli alpini della divisione Alpi Graie, che in una situazione drammatica, lasciati allo sbando dai comandi, continuarono a combattere tenendo inchiodati i tedeschi di là dal Magra. Una battaglia che non aveva alcuna possibilità di essere vinta: un fatto che riveste un enorme significato, morale e civile prima ancora che militare.

Abbiamo poi raccontato il formarsi delle prime bande, e la varietà degli apporti alla Resistenza degli inizi: l’antifascismo morale ed esistenziale, solo approssimativamente politico, dei giovani, e l’antifascismo della clandestinità durante il ventennio, tutto politico. Due generazioni, due componenti, due anime, che si incontrarono ma anche si scontrarono. Alle quali si aggiunsero altre componenti: gli ex militari sbandati, gli ex prigionieri stranieri, i disertori tedeschi. Mentre anche gli alleati cominciavano, da subito, a fare la loro parte.

Il solo elenco dei primi caduti per mano fascista e nazista è emblematico di un percorso patriottico e insieme internazionalista che è tutto il contrario della rappresentazione caricaturale della Resistenza come “derby tra fascisti e comunisti”: l’alpino contadino pavese, che finalmente ha ora un nome: Rosolino Ferrari; i due inglesi dell’Operazione Speedwell; il polacco senza nome ucciso il 30 gennaio, che era con il gruppo santostefanese di Primo Battistini; gli undici ragazzi della banda garibaldina del monte Barca, tre dei quali russi; il gappista comunista sarzanese Arturo Emilio Bacinelli, giustiziato sotto casa il 18 marzo; i militari sbandati e il disertore tedesco, di cui conosciamo solo il nome Hans, del gruppo azionista al comando di Piero Borrotzu “Tenente Piero”, uccisi il 26 marzo a Groppo; i quindici americani della missione Ginny, trucidati il 26 marzo a Punta Bianca; fino al sacrificio del “Tenente Piero”, giovane ex militare, monarchico e cattolico, fucilato a Chiusola il 5 aprile: salvò la popolazione di quel paese e scelse la morte, che affrontò al grido “Viva l’Italia libera”.

Fu una Resistenza, come si vede, a cui parteciparono uomini e donne di ogni tendenza politica e sociale, di più generazioni, di più nazioni.

Fu una resistenza di “pochi”?

Sì, di minoranze. Ma minoranze che seppero costruire attorno a sé un’ampia solidarietà: degli operai delle fabbriche, protagonisti dei grandi scioperi del gennaio e poi del marzo 1944, che misero al centro la questione del valore del lavoro e della centralità del conflitto sociale; dei contadini e delle contadine, la cui opera di sostegno e di cura fu decisiva; di ampi settori della borghesia cittadina e degli intellettuali.

La Resistenza – hanno scritto gli storici Barbara Berruti, Chiara Colombini e Carlo Greppi – è dunque “di tutti” non solo perché i “pochi” sono stati espressione di ogni componente della società; è “di tutti” perché quei “pochi” non hanno agito da soli e hanno anzi consolidato attorno a sé, sui monti, nelle valli e nelle città un’area di ampio e crescente consenso; e soprattutto è “di tutti” perché quei “pochi” hanno agito, pensato, combattuto non solo per sé ma per la collettività.

Ecco perché il 25 aprile non è una data per i nostalgici delle ricorrenze, ma è l’inizio di una stagione straordinaria – cioè fuori  dell’ordinario – di democrazia, di libertà, di pace.

Il 25 aprile, scrisse Luigi Pintor nel 1994, è il giorno più importante della storia d’Italia perché è il giorno della liberazione dalla dittatura, dalla guerra fascista, dall’occupazione straniera.

E’ il giorno di nascita della democrazia italiana, che prima non c’era mai stata: la monarchia prefascista non era una democrazia.

E’ il giorno in cui il mondo del lavoro e il popolo diventano protagonisti, o almeno creano le condizioni per esserlo. Un giorno di vittoria popolare e di sconfitta e vergogna delle classi dirigenti, la cui crisi organica – politica, morale e d’autorità – era tragicamente emersa già il 25 luglio e l’8 settembre 1943.

Il 25 aprile è il giorno della dignità nazionale, perché senza quella lotta l’Italia sarebbe divenuta un’espressione geografica, un povero Paese umiliato.

Il leader della DC Alcide De Gasperi sosteneva che la Resistenza era stato il sacrificio senza il quale nessun governo democratico avrebbe potuto presentarsi davanti al tribunale della storia. Nel celebre discorso del 10 agosto 1946 alla Conferenza di pace di Parigi disse: “Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire”.

Il 25 aprile è una festa: non evoca una tragedia, ma semmai il suo compimento e la sua negazione.

Il fascismo è stato un male radicale per la storia del nostro Paese, l’antifascismo invece la sua cura. Ecco perché festeggiamo.

Il 25 aprile accolse i vinti senza pesi né vincoli: lo dimostrò l’amnistia voluta non solo dal democristiano De Gasperi ma anche dal comunista Togliatti. Possiamo oggi discutere della validità di tutti gli aspetti di quella scelta. E interrogarci sul perché gli ideali di rinnovamento che avevano dato vita alla Resistenza non siano riusciti a mantenere la loro intensità, e con essa l’unità delle forze antifasciste. Ma una cosa va detta: gli eredi della tradizione politica sconfitta nel 1945 oggi governano il Paese. A me dispiace, perché vengo da un’altra tradizione politica. Ma – domandiamoci – non è forse una straordinaria lezione di democrazia, che andrebbe da tutti riconosciuta?

Una grande personalità dell’antifascismo, Vittorio Foa, disse una frase – notissima – al missino  Giorgio Pisanò durante un dibattito televisivo: “Se avesse vinto lei io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”. Perché siamo un’altra storia.

Ora la questione è diventata questa: scomparse le forze politiche antifasciste che diedero vita alla Resistenza e alla Costituzione, ci restano – e non è poco – l’antifascismo e la Costituzione. Cioè le idee morali e le norme giuridiche che costituiscono il fondamento di uno Stato. Attorno a cui il popolo italiano ha sempre fatto quadrato: lo hanno dimostrato due referendum.

Ma qual è il rapporto fondamentale tra Resistenza e Costituzione? Sta nel fatto che la Costituzione si fonda su un principio di cittadinanza attiva – il popolo che “esercita” la sovranità – articolato attraverso una serie di strumenti: la libertà di pensiero e di parola, i sindacati, i partiti, le associazioni, la scuola pubblica. Esattamente il contrario della politica tutta ricondotta a un capo. La questione è che la Costituzione va attuata: è una forza inesplosa. Ma se si passa allo strapotere dell’esecutivo sul legislativo, se sindacati, partiti, spirito attivo che porta alla cittadinanza e alla partecipazione non trovano una nuova vitalità, allora la Costituzione resterà inattuata, e forse troverà il suo capolinea. Questa è la grande questione dell’oggi.

E noi, associazioni partigiane, non possiamo non dire: di fronte al disincanto del popolo per la politica, riscopriamo la bellezza della politica. Cioè il cammino della Costituzione, fatto di dignità, legalità, onestà, giustizia sociale e ambientale, altruismo, fratellanza, solidarietà. L’emancipazione e la liberazione della persona – a partire dalla persona che lavora – dal mercato. Cittadini, non più clienti. Lavoratori liberi, non più sfruttati. Non serve un capo, serve una coscienza collettiva alla ricerca del bene comune, che è tutto già prescritto nella Costituzione.

L’umanesimo partigiano ci ha lasciato grandi lezioni, più che mai attuali.

La prima lezione è che, dopo vent’anni di “credere obbedire e combattere”, i partigiani hanno smesso di obbedire e hanno scelto loro in che cosa credere e per che cosa combattere. Si sono assunti una responsabilità. Anche noi dobbiamo farlo. La repubblica sono i cittadini, lo Stato siamo noi, siamo sovrani e abbiamo il compito di esercitare questa sovranità. Ottant’anni dopo, il nostro compito è “resistere ogni giorno”, cioè “scegliere ogni giorno”. Cosa significa resistere se non “piantare il melo anche se domani scoppiano le bombe”, come diceva Martin Luther King? Cos’è lo spirito del 25 aprile, se non è questo? Se non piantiamo il melo, oggi e domani e dopodomani, non ci sarà festa in piazza che ci salverà; se non lavoriamo con onestà e giustizia ogni giorno, nei nostri luoghi di vita e lavoro, nella società civile, nelle stanze della politica, se non facciamo le scelte giuste – e solo noi possiamo sapere quali siano quelle giuste, interrogando ogni giorno la nostra coscienza, come facevano i partigiani lassù in montagna – se non facciamo di ogni giorno della nostra vita un inno alla trasformazione del mondo e della nostra anima, tutto sarà vano.

La seconda lezione è che, in un periodo in cui si lottava per la sopravvivenza, i partigiani non pensavano solo al presente, che pure era pieno di drammatiche urgenze, ma non hanno mai smesso di immaginare il futuro: la pace, la democrazia, la giustizia. Oggi il futuro sembra una dimensione vaga e nebulosa, sopratutto per le ragazze e i ragazzi. Ma dobbiamo  avere la forza di pensare il futuro. La storia non è finita.

La terza lezione è che quel periodo tragico spingeva all’individualismo e a pensare a se stessi.

Eppure i partigiani non hanno mai smesso di pensare alla dimensione collettiva: la vita intesa come cammino non solo individuale ma anche per gli altri e con gli altri. La vita intesa come farsi carico della sofferenza degli altri. Una scelta rivoluzionaria, l’unica capace di cambiare il mondo. L’apertura incondizionata verso l’altro è la cultura di cui abbiamo bisogno. E’ la riflessione di don Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa”: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. L’immedesimarsi nell’altro per cercare tutti insieme di liberare, di autogovernare, di rendere degne le nostre vite. E’ una lezione perenne, contro l’individualismo oggi così prevalente.

La quarta lezione è che la pace era il vero valore, e il vero obiettivo, di chi combatté la guerra di Liberazione. La guerra di Liberazione voleva la fine della guerra, la liberazione da tutte le guerre, e condannava la guerra come male non riparabile. E voleva la ricerca della pace, come principio di civiltà contrapposto alla barbarie di ogni ideologia della morte. Di cui il fascismo era – e portava sulle proprie divise – l’emblema.

Non a caso l’art. 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. “Ripudiare” vuol dire non riconoscere più come proprio qualcosa che pure è nostro, o lo era fino a quel momento. Il carattere micidiale assunto dalla guerra fu cioè compreso dai resistenti, che pure avevano vinto anche con le armi, quando divennero costituenti. In un mondo pervaso dal fervore bellico, che sta uccidendo la politica – che è ricerca della pace e del compromesso –, dobbiamo, in Ucraina, in Israele e in Palestina e dovunque nel mondo c’è la guerra, batterci con tenacia per cercare la via della pace. Cessate il fuoco, negoziate! Basta uccidere!

Forti di queste lezioni diciamo grazie alle partigiane e ai partigiani

Viva la Resistenza! Viva la Costituzione! Viva l’Italia libera, democratica e antifascista!”.2

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