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Seconda giornata delle ventesima edizione

Al Festival della Mente la meraviglia come stupore di fronte alle guerre, Mannocchi: “Dobbiamo continuare a ritenere ingiusta ogni morte”

Le esperienze della giornalista fra Ucraina e Somalia: "Spesso ci limitiamo a raccontare i campi profughi solo attraverso ciò che si vede e non con le conseguenze di ciò che manca".

Francesca Mannocchi al Festival della Mente

Attesa e a lungo applaudita esattamente come un anno fa, Francesca Mannocchi questa mattina è tornata sul palco del Festival della Mente di Sarzana offrendo al pubblico uno sguardo diretto e anche critico sui conflitti e sul modo di raccontarli. Una riflessione quella della giornalista appena rientrata dal Sud Sudan, partita da una frase della nonna testimone della Seconda Guerra Mondiale: “Quello che non capirete mai voi che avete la fortuna di non viverla è che in guerra la gente continua ad amarsi, a fare feste, a mettere fiori su balconi che magari sono stati distrutti da un bombardamento”. “Questa frase l’ho capita fino in fondo quando è iniziata la guerra in Ucraina sulla quale mi sono interrogata come tutti e mi ha fatto chiedere se siamo ancora in grado di stupirci nel bene e nel male di fronte al dolore degli altri e cosa farei io se fossi al posto delle persone che racconto”.
Per l’autrice di numerosi reportage fra Siria, Iraq, Palestina, Afghanistan e altri scenari di guerra dunque il tema della meraviglia viene declinato “nella sua accezione di stupore”. “Di fronte alle foto di funerali, facce rattoppate e madri che gettano terra sulle fosse – ha osservato – si rischia l’assuefazione e l’antidoto è chiedersi se abbiamo ancora un pezzo di muscolo di stupore allenato a ritenere che ogni morte in guerra è sempre ingiusta”. Citando le parole della Premio Nobel Svetlana Aleksievic “In guerra l’uomo si trasforma in un essere spaventoso e oscuro”, Mannocchi ha aggiunto: “Lo strumento del sapersi meravigliare ancora davanti alla morte, alla fame, alle alluvioni, alle umiliazioni, oppure a una madre che partorisce su un barcone al centro del Mediterraneo, è anche osservare la guerra anche come uno strumento di dubbio e dilemma”. Quindi i primi ricordi dell’esperienza in Ucraina nelle stazioni nelle quali si consumavano gli addii fra chi restava e chi lasciava case e affetti, “con la consapevolezza che niente sarebbe stato più come prima, anche se la guerra fosse finita dopo pochi giorni”. “Mi sono resa conto con stupore – ha aggiunto – che per la prima volta quelli che piangevano erano coloro che restavano e non quelli che se ne andavano i quali non potevano permettersi il lusso delle lacrime”.
Esperienze vissute nel conflitto ucraino o in altre zone critiche e campi profughi in Somalia definiti “non luoghi nei quali c’è bisogno di sapone, pannolini, assorbenti e dove si trovano mani tese che aspettano che arrivi qualsiasi cosa; posti dove si muore di diarrea e morbillo e dove si vive in assenza di qualcosa”. Campi profughi che per la giornalista sono “un luogo simbolo del nostro tempo e che noi narratori, filmmaker e scrittori spesso ci limitiamo a raccontare solo attraverso ciò che si vede immediatamente come le tende, il logo delle Nazioni Unite e ciò che ci sembra stupefacente e quasi irreale. Spesso però – ha fatto autocritica – non raccontiamo quello che manca, non parliamo di una popolazione generalmente under 16 senza giochi, senza ombra, bagni o elettricità. Tutte cose che non si vedono nella prima istantanea delle tende che non mostra le conseguenze di ciò che manca”.
“Non dobbiamo smettere di stupirci e pensare che tutto questo sia ordinario – ha concluso Mannocchi – dobbiamo conservare uno spazio di disorientamento e continuare ad essere scomodi davanti a queste immagini”.

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