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Luci della città

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Quando eravamo il golfo dei monaci

Il disegno del convento di Maralunga di George Keate "A Convent att Lirici", risalente al 1754-1755 ed esposto al British Museum di Londra (foto Alessandro Manfredi)
Il disegno del convento di Maralunga di George Keate "A Convent att Lirici", risalente al 1754-1755 ed esposto al British Museum di Londra (foto Alessandro Manfredi)

All’origine della storia a cui è dedicato l’articolo di oggi c’è, come spesso avviene, una leggenda: quella del ritrovamento – nel 1480 lungo la scogliera di Maralunga, da parte di tre pescatori – delle tavole pittoriche recanti l’immagine di una Madonna con il Bambino. Il luogo preciso è ancora oggi incantato: la grotta detta “Tana del Brigantino”. Il convento di Maralunga a Lerici nacque così:

“I tre pescatori dopo essersi avvicinati e dopo aver issato a bordo le tavole, con profondo senso religioso deposero il dipinto in una capanna sugli scogli della punta del promontorio al di sopra del luogo del ritrovamento. Questa si trasformò quasi subito in una piccola cappella e cominciò a richiamare lunghe peregrinazioni di fedeli che fecero diventare il luogo oggetto di culto dei lericini e degli abitanti dei borghi circostanti. Il mare era tutto un pullulare di piccole imbarcazioni che con intere famiglie approdavano alla spiaggia del promontorio oppure vi giungevano attraverso il ristretto sentiero che da dietro il castello portava alla punta della scogliera”.

Frate Urbano, il monaco agostiniano che offriva la sua assistenza spirituale ai lericini, capì che era necessario costruire la chiesa e il monastero per accogliere i sempre più numerosi pellegrini che accorrevano a venerare la sacra icona.

Il professor Rosario Sabatino Lopez, storico della Genova medievale e del commercio mediterraneo, ha scritto parole illuminanti che dovrebbero guidare chiunque si appresti a fare ricerca storica:

“Ai miei studenti raccomando di fare macrostoria con microstoria per materia prima; cioè idee larghe e suggestive, esempi e modelli stretti e precisi”.

Margherita Manfredi, lericina, che a Genova si è formata, ha seguito questa indicazione e ha scritto un bel libro di macrostoria e microstoria. La microstoria è quella del convento agostiniano di Maralunga, realizzato subito dopo il 1480 e scomparso ai primi dell’Ottocento con l’avvento dell’età napoleonica: il libro si intitola appunto “Il convento scomparso”.

La leggenda che è all’origine del convento ricorda quella del ritrovamento del dipinto di Porto Venere della Madonna Bianca e di quello di San Terenzo della Madonna dell’Arena.

Per Porto Venere la leggenda racconta che il 16 agosto 1399, in casa sua, Luciardo, un umile popolano, stava pregando davanti a un’immagine della Madonna. Nella stessa stanza c’era un’icona mariana più antica, che era giunta in paese all’interno di un tronco di cedro del Libano, dove era conservato il dipinto. Mentre Luciardo pregava, la vecchia immagine annerita riprese colore a poco a poco: Luciardo e tutti i portoveneresi gridarono al miracolo.

A San Terenzo la tradizione vuole che il dipinto della Madonna dell’Arena sia stato trovato pescando tra Lerici e San Terenzo, in epoca di poco precedente al ritrovamento di Maralunga. I pescatori erano santerenzini e il dipinto finì a San Terenzo, ma era stato pescato in acque lericine. Da qui le liti continue tra i due borghi.

La studiosa Giuliana Algeri ha sostenuto che la Madonna di Maralunga richiama nella parte sinistra il dipinto di Porto Venere, e nella parte destra quello di San Terenzo. Probabilmente i lericini commissionarono la Madonna a un pittore locale o di area toscana o emiliana per rivaleggiare con Porto Venere e San Terenzo. Da allora fino a oggi, ogni 25 marzo – data del ritrovamento del dipinto –, i lericini organizzano una processione sul mare che arriva fino a Maralunga: è la loro festa. Il culto popolare è così forte che la formella in terracotta con la doppia immagine è presente nelle facciate e negli atri di molti palazzi di Lerici.

La microstoria ha dunque come protagonista la devozione dei lericini, e più in generale la religiosità del golfo, che prima di essere dei poeti fu dei monaci, a partire da San Venerio al Tino. L’insediamento degli Agostiniani a Maralunga era già stato preceduto dalla fondazione di un monastero dello stesso ordine alla Spezia, nel 1390. Ma prima ancora i frati erano stati in un monastero che sorgeva a Vezzano Ligure.

Nel 1629 la chiesa di Maralunga, fino ad allora sempre nominata con il titolo di Santa Maria delle Grazie, prese il nome di SS. Annunziata. Nella chiesa si formò l’Opera di Sant’Erasmo, il cui culto in Liguria come patrono degli uomini di mare risaliva al XII secolo.

La macrostoria è quella di Lerici e del golfo dal 1480 al 1799. Lerici in quel periodo fu sempre con Genova, che riuscì nel 1487 a difenderla dall’attacco di Firenze, che riuscì a conquistare Sarzana. Genova e Lerici furono poi asservite a Milano. Lerici acquistò una crescente importanza commerciale e divenne tappa degli itinerari dei pellegrinaggi tra Roma e Santiago di Compostela. Si formò così una nuova classe borghese, notevolmente ricca, come si può vedere dai palazzi lussuosi, dai ricchi giardini e dalle committenze religiose. Le campagne dei dintorni erano coltivate a vite, a olivi, a fichi, a castagne, ad agrumi, al lino. Funzionavano un mulino a vento – nella zona vero la Caletta – e un frantoio più verso Lerici, di cui oggi si conservano alcuni resti.

Nel 1528 Andrea Doria soggiornò a Lerici per quasi tre mesi, e fu a Lerici che stipulò il trattato che sancì la nuova alleanza tra Genova e Carlo V di Asburgo. Nel 1678, nell’attuale piazza Garibaldi, fu ucciso il duca di Somerset, colpevole di essere amico di un francese che era stato troppo galante verso una giovane donna lericina, e per questo punito dal cognato di lei, un signorotto locale. Lerici rischiò la vendetta del re d’Inghilterra, ma poi tutto in qualche modo si accomodò.

Ma che cosa facevano gli Agostiniani di Maralunga? Facevano scuola, avevano cioè una funzione educativa, non solo religiosa. Dal 1629, come abbiamo visto, il convento divenne la sede dell’Opera di Sant’Erasmo, la confraternita degli uomini di mare, che assunse la funzione di ente portuale.

Dai libri del convento studiati da Margherita Manfredi – che riguardano gli anni dal 1612 al 1799 – sappiamo tutto anche dell’alimentazione dei monaci e di cosa allevavano – galline – e coltivavano – olivo e vite. Sulla tavola c’era molta pasta fatta in casa, e poi carne, verdure, uova, stoccafisso, olio, vino. Molto gradita la panizza. Insomma, viene ricostruita la storia quotidiana, fino alla vicenda di un frate “in crisi”, molto probabilmente innamorato, che alla fine tornò alla sola fede in Dio.

Tutto finì con l’arrivo dei francesi. Il convento fu abbandonato, la Madonna portata nella parrocchiale di Lerici. Da allora è lì che si svolgono le celebrazioni in suo onore. A nulla servì il tentativo del vescovo di Luni Francesco Agnini, nel 1837, di salvare il convento, che si voleva usare come luogo di villeggiatura degli allievi del seminario di Sarzana. Il vescovo si rivolse al re ma nessuno intervenne, e anche i lericini tacquero. Al posto del convento sorse una batteria militare, mai utilizzata. Oggi, anch’essa abbandonata, è adoperata dalla Marina per i bagni di mare. Resta qualche traccia del glorioso passato: due panchine e un olivo che ha oltre cinquecento anni.

I lericini persero anche la chiesa dei Cappuccini e l’Orto dei Frati – di fronte al Comune – nel 1938, quando fu stravolto l’assetto urbanistico della città. Oggi avremmo, osserva la Manfredi, due complessi architettonici di valore, con opere d’arte preziose che sono disperse e sconosciute alla grande maggioranza dei lericini e probabilmente degli stessi amministratori.  Sacrosanta, dunque, la speranza con cui si conclude il libro, la stessa espressa da Piero Donati su “Città della Spezia” il 5 febbraio scorso:

“Le reliquie della chiesa dei Cappuccini, così come quelle del santuario agostiniano di Maralunga, andrebbero raccolte in un Museo della Città che potrebbe degnamente essere allestito nell’ex-oratorio di San Bernardino, che è dotato di ingresso autonomo e di spazio pertinenziale nel quale potrebbe essere custodita, nella sua interezza, la colonna trilitica in marmo apuano che attualmente è assurdamente divisa fra l’area archeologica di Luni – da cui non proviene – e il basso fondale della caletta di Lerici. Questa colonna era destinata, come dimostrano molteplici indizi, al cantiere del Carlo Felice di Genova, inaugurato nel 1827”.

San Bernardino si presta davvero, anche perché conserva molti ex voto, di grande pregio, riferibili al culto della Madonna di Maralunga. “La speranza – conclude Margherita Manfredi – è l’ultima a morire”, contro “abusi”, “trasformazioni insensate” e “omologazione dei luoghi”. Perché “la bellezza va coltivata da vivi ogni giorno”.

 

Post scriptum:

Le foto di oggi sono di Alessandro Manfredi e ritraggono il disegno del convento di Maralunga di George Keate, risalente al 1754-1755 ed esposto al British Museum di Londra, e la mappa del convento disegnata da Giobatta Chiodo, risalente al 1817 e conservata all’Istituto Geografico Militare di Firenze.

Riprende con quello di oggi la serie di articoli dedicati alla “creatività dei nonni” (o in età da esserlo). I primi due articoli sono stati dedicati ai libri di don Sandro Lagomarsini (22 agosto 2022) e di Ettore Dazzara (25 settembre 2022).

 

lucidellacitta2011@gmail.com

 

La mappa del convento di Maralunga disegnata da Giobatta Chiodo, risalente al 1817 e conservata all’Istituto Geografico Militare di Firenze (foto Alessandro Manfredi)

La mappa del convento di Maralunga disegnata da Giobatta Chiodo, risalente al 1817 e conservata all’Istituto Geografico Militare di Firenze (foto Alessandro Manfredi)

 

 

 

 

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